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La Resistenza civile: eccezionale fu l’apporto delle donne

La storiografia resistenziale si è concentrata soprattutto sulla centralità della guerra partigiana ma  negli ultimi decenni l’attenzione degli storici si è rivolta  alla “Resistenza civile” a quell’ opposizione cioè non armata, silenziosa, relativa alla vita quotidiana.

Rientrano in quest’ultima categoria storica una serie di manifestazioni di dissenso verso i regimi dittatoriali, messe in atto senza un ricorso sistematico alla violenza e all’uso delle armi. I protagonisti furono diversi segmenti della società civile, come gli operai delle fabbriche, i lavoratori agricoli, i funzionari pubblici, gli imprenditori, i sacerdoti, i deportati, i prigionieri di guerra, tutti gli uomini e le donne che si comportarono da semplici cittadini rifiutando però di collaborare con le autorità nazifasciste. Queste pratiche potevano essere autonome o subordinate, cioè potevano essere orientate a obiettivi propriamente “civili” (per esempio, la protezione di persone ricercate), oppure condotte al servizio della lotta armata.

Nel primo caso, la finalità era il mantenimento dell’integrità morale, della coesione sociale, delle libertà fondamentali, del rispetto di diritti acquisiti. Rientravano in questa categoria i comportamenti di istituzioni (chiese, sindacati, associazioni) che sfidavano l’autorità in vari modi, così come le azioni di gruppi di individui che tentavano di organizzarsi a livello locale per portare assistenza ai perseguitati. Nel secondo caso, invece, l’obiettivo era quello di agevolare e rafforzare la lotta armata, per esempio proteggendo i partigiani, raccogliendo informazioni, sabotando gli spostamenti delle forze nemiche.

Resistenza militare e resistenza civile

Resistenza militare e Resistenza civile hanno rappresentato dunque due modalità differenti per opporsi al nazifascismo durante la Seconda guerra mondiale ma non furono tra loro incompatibili, realmente alternative l’una all’altra, ma complementari. Senza l’attività militare dei partigiani, il dissenso civile sarebbe rimasto troppo debole per incrinare la tenuta del regime fascista e ostacolare l’occupazione tedesca. Senza l’appoggio di una parte della popolazione civile, l’azione delle bande armate sarebbe rimasta isolata, del tutto minoritaria, e più facilmente arginabile. Per comprendere meglio la complessità delle forme che la lotta antifascista poteva assumere, tra pratiche armate e disarmate, si possono prendere ad esempio determinati episodi storici di mobilitazione operaia, avvenuti in Italia negli ultimi due anni della Seconda guerra mondiale. Quello del lavoro in fabbrica fu infatti uno degli ambiti in cui il fenomeno della Resistenza civile trovò piena espressione.

La guerra partigiana, pur essendo la forma di opposizione ai tedeschi e ai fascisti più visibile, clamorosa e politicamente fruttuosa non esaurisce affatto la ricchezza e la varietà delle forme di resistenza. Per lungo tempo, resistente è stato considerato chi ha combattuto in montagna, il partigiano, cioè il cittadino maschio in armi, o chi ha militato in un partito politico: una visione che ha finito per offuscare l’iniziativa dei civili, “tanto spesso citata come contorno favorevole del movimento partigiano, quanto disconosciuta, appunto come fenomeno autonomo orientato a scopi non militari o politici”.

Da questo punto di vista, d’importanza cruciale è stata propria la definizione della categoria di resistenza civile, vale a dire della pratica di lotta di singoli o di gruppi che si avvale non delle armi ma di “strumenti immateriali come il coraggio morale, l’inventiva, la duttilità, le tecniche di aggiramento della violenza, la capacità di manovrare le situazioni, di cambiare le carte in tavola ai danni del nemico”.

Essa rappresenta anche lo sfondo necessario per comprendere e descrivere la parte giocata da tante donne in questa guerra, conferendo visibilità , spessore e dignità politica alle forme di lotta più legate alla quotidianità, a quelle “azioni di erosione continua del potere degli occupante e di cura della vita”, azioni che furono proprie di tante e che al di là di scelte politiche esplicite o di appartenenze partitiche “significarono un’opposizione e l’affermazione di una soglia oltre la quale la violenza di chi la guerra aveva voluto non poteva più essere accettata”. Il punto di inizio della resistenza civile furono  i giorni immediatamente successivi all’8 settembre 1943, quando migliaia di soldati si sbandano sul territorio cercando di sfuggire ai tedeschi.

Il ruolo delle donne negli anni della Resistenza

In questi primi mesi le donne furono protagoniste  nell’offrire assistenza, abiti vestiti civili, nascondigli a migliaia di militari sbandati esercitando così una specie di “maternage”. (Vedi romanzo e film “L’Agnese va a morire”).

Nei venti mesi successivi, la resistenza civile assume altre forme: tra queste, sabotaggi e scioperi per ostacolare lo sfruttamento delle risorse nazionali perseguito dai nazisti e contro la deportazione di manodopera maschile e femminile; tentativi di impedire la distruzione di cose e beni essenziali per il dopo; lotte in difesa delle condizioni di vita; isolamento morale del nemico. L’aspetto più diffuso, è senza dubbio la protezione verso chi è in pericolo: basta ricordare la lunga ospitalità offerta ai prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento dopo l’armistizio, l’aiuto agli ebrei, che costituisce il banco di prova della resistenza civile in tutta Europa.

E non da ultimo l’appoggio alle formazioni partigiane: sono molte le donne che, per esempio, si occupano della raccolta di viveri, indumenti, farmaci, soldi, garantendo la sopravvivenza dei partigiani; molte svolgono un ruolo fondamentale nell’organizzazione e nella diffusione della stampa clandestina e di volantini antifascisti nei cinema, nei mercati rionali, nei luoghi di lavoro e, alcune imparano, in quelle circostanze, a battere a macchina; oppure ci sono le impiegate negli uffici o nei distretti militari dove forniscono tessere e documenti di identità falsa che consentono a molti di darsi alla macchia, o dove agiscono anche da informatrici; altre organizzano evasioni dagli ospedali e dalle carceri. Altrettanto essenziale la funzione delle case che da luoghi eminentemente privati diventano politici, “sedi di una vera e propria rete logistica della lotta clandestina”, sono luoghi di sostegno e di rifugio, ma anche basi partigiane: lì si nascondono ricercati o esponenti di passaggio, partigiani, ebrei, ex prigionieri alleati; si raccolgono armi, si organizzano passaggi di frontiera, si tengono riunioni, si ciclostilano volantini.

Tutto ciò ha significato per le donne e per le loro famiglie compiere scelte precise, accettare i rischi, agire nel teatro della guerra e subirne le tragiche conseguenze. Ospitare, dar da mangiare, nascondere, favorire espatri clandestini, informare, trasportare, tutte queste azioni estremamente pericolose sotto un regime di occupazione che espone tutti e tutte a continue perquisizioni e rappresaglie, sono “atti politici”: e, molte sono state le donne che hanno pagato con l’arresto e il carcere.

“Si tratta, come scrivono Bravo e Bruzzone, “di un enorme lavoro di tutela e trasformazione dell’esistente – vite, rapporti, cose – che si contrappone sul piano materiale e spirituale alla terra bruciata perseguita dagli occupanti”. Con l’applicazione di questo nuovo apparato concettuale non solo si abbatte l’idea di una “zona grigia” massificata e indistinta e contrapposta alla minoranza armata, ma si dimostra assai poco efficace, se non addirittura superato il rilievo conferito  in più occasioni alla questione numerica. (Mi riferisco all’accusa di coloro che hanno messo in discussione i fondamenti della Repubblica e della sua Costituzione con l’argomentazione che milioni di italiani si sono trovati a vivere in un nuovo Stato voluto da poche centinaia di migliaia di partigiani).

Non solo perché tanti, soprattutto tante donne, non hanno avanzato domande di riconoscimento o di risarcimento, ma sarebbe impossibile calcolare la massa esterna alle maglie della politica. In questa categoria di “resistenza senz’armi” trovano, finalmente, identità e visibilità altri soggetti, gli Internati militari italiani  che rifiutano in maggioranza, per ragioni diverse (“la fedeltà al giuramento al re e alle istituzioni, la difesa della propria dignità di uomo, il rifiuto del fascismo e della guerra nazifascista”), di arruolarsi nell’esercito di Salò.

 

A cura di Antonio Lagrasta

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